“Signore, quando ti abbiamo visto?”
Matteo conclude il discorso “escatologico”, sulle realtà ultime della storia e della vita, con questa grandiosa scena del giudizio finale: non è una parabola o una descrizione apocalittica, ma è quasi una sintesi di tutto il Vangelo e delle sue esigenze.
Il giudice è indicato come il Figlio dell’uomo, come il re, e agisce come il pastore: sono tutti riferimenti a Gesù; Egli è però un re che si identifica con i suoi “piccoli fratelli”, condividendone povertà, debolezza, concreta umanità. Dio entra nell’esperienza storica di ogni uomo secondo quella realtà di incarnazione che presto contempleremo nell’Avvento e nel Natale. Attraverso i “fratelli” ci facciamo dunque prossimi a Gesù, intimi a Lui, anche se non sfugge in questa pagina l’inconsapevolezza di tutti nell’aver servito o meno proprio il Signore: “Quando ti abbiamo visto?”. Occorre cambiare, allora, il nostro sguardo, e occorre poi far sì che il vedere generi l’intervento, l’azione. Matteo ci ricorda che è proprio in questa concretezza, nel “fare” o “non fare”, che si gioca la nostra fedeltà al Vangelo. Il testo ripete con una “pedanteria” voluta alcune espressioni per indicarci che sono proprio queste le realtà su cui si fonda il giudizio.
Un’ultima chiosa sulla regalità di Gesù: non dobbiamo pensare a un contrasto tra il Cristo crocifisso e il Cristo giudice. Al contrario: Cristo assiso sul trono della sua gloria è lo stesso che regna dalla croce, è la conferma che l’amore di Dio non è destinato allo scacco, non è smentito dalla storia, ma vince. E salva.